Diceva il conte Verri...

"La voce della verità comincia da lontano a farsi ascoltare, poi si moltiplicano le forze, e la opinione regina dell'universo sorride in prima, poi disputa, poi freme, poi ricorre alle arti, poi termina derisa: questo è il solito gradato passo che fa la ragione a fronte dell'opinione" (Pietro Verri)

sabato 4 aprile 2020

CORONAVIRUS E AUTOSUFFICIENZA COMUNALE

Il coronavirus riscrive il nostro rapporto non solo con la Terra, ma anche con il suolo. Lo ha fatto ancor prima che le misure di sicurezza costringessero i cittadini nelle proprie abitazioni. Nel momento in cui il Comune di Monza ha deciso di chiudere il Parco Reale, onde evitare assembramenti rischiosi per la salute, il territorio di Biassono si è scoperto improvvisamente mutilato. Famiglie in cerca di uno spazio aperto per i propri figli, anziani abituati a passeggiare nel verde, ma anche habitué dello sport o semplici amanti delle “natura”, hanno avvertito una mancanza sino a quel momento quasi invisibile. 

Chi conosce i percorsi che dal centro storico del paese conducono sino alle rive del Lambro, invece, avrà di sicuro notato in zona un insolito incremento di visitatori, con ragazzi appoggiati alle piante per leggere più comodamente, altri seminascosti nell’erba alta dei campi  - intenti forse a telefonare con discrezione - altri ancora appollaiati su qualche masso in riva al fiume, persi nella contemplazione delle acque. Sino a quando è stato possibile, l’area-est di Biassono - parzialmente tutelata dal Parco Valle Lambro - ha offerto una piccola valvola di sfogo all’immobilizzazione extra comunale imposta dai provvedimenti governativi e, in un secondo tempo, regionali. Funzione quasi del tutto trascurata in tempi “normali”, quando è invece il Parco di Monza a esercitare la sua funzione di attrattore/ristoratore naturale dell’equilibrio psico-fisico (concetto del tutto alieno ai provvedimenti emanati per l’emergenza). 

Eppure le differenze sono evidenti: di fronte alla progressiva scomparsa di terreni liberi in tutti i Comuni della bassa Brianza, da una ventina di anni almeno il Parco si è trasformato in una “riserva di verde”: il punto più vicino e accessibile per sfuggire al grigiore urbano, all’interno del quale, tuttavia, l’ambiente naturale viene “fruito” anziché “vissuto”. Al Parco si va per correre, per pattinare, per pedalare in bicicletta; si va per stare in compagnia in un contesto rilassante, per fare ricerche di botanica, per osservare gli uccelli, per apprendere in che cosa consistano oggi le attività agricole e di allevamento. C’è chi frequenta il Parco, ahi noi, anche per godere delle corse in autodromo, come se queste fossero attività appropriate, nonostante gli effetti devastanti in termini di disturbo acustico e produzione d’inquinamento. Una riserva verde, in generale,  che svolge una funzione del tutto analoga a quella di una piscina urbana, o di un grande giardino pubblico.  

I terreni a est di Biassono, al contrario, permettono di vivere quel che resta della campagna aperta brianzola e del suo stile di vita. Mantengono un senso paesaggistico per l’orizzonte, grazie alle straordinarie vedute sui monti della Grigna e del Resegone, ma rivelano anche la cura con cui la terra viene accudita, arando campi, disegnando barriere verdi, cercando faticosamente un’armonizzazione fra fabbisogno agricolo e contatto spirituale con la natura. Non esistono vie prestabilite, o strade principali d’accesso; non sono presenti percorsi attrezzati per lo sport o punti di ritrovo. L’attraversamento di questi terreni invita piuttosto a vagare, a ritirarsi nell’intimità degli spazi marginali, a praticare attività fisica non seguendo alcun principio di performance, a ritrovare un contatto meditativo con se stessi, prima ancora che con l’altro, stimolando la curiosità dei nostri sensi. Si ruba una mora dai rovi. Si annusa un sambuco in fiore. Si cammina a piedi nudi nell’erba. Esperienze che ci siamo abituati a fare altrove. Ma, soprattutto, questa lenta esplorazione favorita dalla parte orientale del paese può proseguire in modo indefinito, sfruttando gli ultimi corridoi verdi che permettono di muoversi da un Comune all’altro, senza passare per le strade asfaltate.

Coronavirus e chiusura del Parco, insieme, sono riusciti a mostrare ai biassonesi che cosa hanno perso in tutti questi anni. Non è necessario aver letto le pagine di Cesare Cantù o i diari di Stendhal per farsi un’immagine di quale amabile territorio fosse la “verde Brianza”. Ancora sino ai primi anni ’80, Biassono godeva di un rapporto molto più equilibrato fra esigenze di sviluppo urbano, attività agricole e disponibilità di habitat naturale. La graduale perdita di terreni liberi, nel tempo, è stata in qualche modo compensata attraverso una mobilità sempre crescente: chi ha la possibilità, lascia il territorio comunale per trovare nel Parco di Monza, sui laghi o sulle montagne vicini, quegli stessi piaceri un tempo qui godibili. 

L’illusione che tutto fosse a portata di mano, in definitiva, ha impedito di rendersi conto delle virtù dell’autosufficienza: un Comune, stando al significato stesso della parola che lo definisce in quanto tale, dovrebbe essere in grado di bastare a se stesso. Dovrebbe disporre di terreni, risorse e servizi sufficienti per garantire una vita dignitosa a tutti i suoi abitanti. 

Chi lamenta di non avere il pane quotidiano, oggi, è la prima vittima di un sistema che sta cercando di privatizzare persino i bisogni essenziali dell’uomo. Chi non può affacciarsi da casa, perché non ha neppure un lembo di terra a suo servizio, è egli o ella stessa vittima di un mercato il cui fine è sempre e solo la massima capitalizzazione. Per troppo tempo abbiamo guardato con paternalistico compatimento tutte quelle società che, prive delle nostre meraviglie tecnologiche, perseveravano a vivere a livelli di “autosussitenza”. Eppure, come ricorda la saggezza delle babushke russe, sopravvissute alla caduta dello Stato grazie agli orti delle proprie dacie, “chi ha la terra, non manca di nulla”. 

La terra, ancor più quando è bene comune e non proprietà privata, garantisce cibo per tutti, risorse per la sopravvivenza, lavoro a chilometrozero e, soprattutto, cura l’uomo attraverso il suo stesso prendersi cura della terra. Lo autodisciplina al senso del limite, alla pazienza, al dialogo con la natura intesa come essere vivente, ancorché come “cosa” a disposizione. In quanto cittadini, dovremmo perciò tornare a reclamare a livello amministrativo la terra; una terra che sia di tutti, però, e non semplicemente un comodo giardino recintato, o un parco-giochi, da contemplare fuori dalla finestra. 

Dovremmo ripartire dall’idea-guida di “orto comunale” (assai meglio che “orto urbano”) come modello di sviluppo collettivo, in grado di dispensare cibo e lavoro a tutti quei cittadini che, usciti dall’emergenza della pandemia, potranno non avere più risorse su cui contare. Questo non significa che dovremo tornare tutti a essere contadini, bensì a ripensare il nostro territorio con la loro stessa capacità di resilienza e di cura: sviluppare, direttamente sul nostro territorio, beni e servizi per chi abita il nostro Comune; coltivare le capacità dei cittadini partendo proprio dalle caratteristiche peculiari dell’ambiente in cui viviamo, attraverso le quali sia possibile svolgere qui ed ora, ciò che sempre demandiamo a un altrove distante non solo nello spazio, ma anche nel tempo. In quest’ottica vanno perciò rivisti i criteri stessi di programmazione del territorio. Basti qualche esempio: recuperare terreni liberi ogni volta che cessi un’attività di servizio o produzione; favorire la conversione agricola e la riforestazione urbana; ripensare l’edilizia secondo il modello delle corti modulari, anziché delle unità abitative, con finalità di assistenza di vicinato; redistribuire i flussi demografici proporzionalmente all’ampiezza dei territori (prevedendo quindi un progressivo decremento della popolazione a Biassono e favorendo un ripopolamento delle aree interne italiane abbandonate); investire nell’artigianalità anziché nella massificazione delle merci; sviluppare presidi scolastici, sanitari e aziendali in grado di garantire il massimo livello di specializzazione concesso alle caratteristiche del territorio.  

Dovremmo cioé intendere la terra, la nostra terra, non più come risorsa “per” (costruire, sfruttare, fruire…), bensì come bene “grazie a cui” (vivere): un medium che elargisca solo in funzione di ciò che siamo poi in grado di restituire. Autosufficienza non significa però isolazionismo: vuol dire far parte di un sistema di “intelligenza vegetale” - come lo definisce il botanico Stefano Mancuso - nel quale ogni cellula è potenzialmente in grado di svolgere il lavoro di tutte le altre, restando però fra loro connesse in un unico organismo che contribuisca al loro costante sviluppo.   

Un tempo, fra il XII e il XV secolo, la comunità di Biassono era riuscita a garantire benessere a ogni suo abitante grazie al modello socio-agricolo degli Umiliati e delle Umiliate: un movimento spirituale che, partendo dal lavoro in comune dei campi e dalla lavorazione della lana ricavata dall’allevamento, era arrivato addirittura a fondare Case “coloniche” (Domus) per tutto il nord Italia, sino al cuore di Milano. La più importante si trovava proprio là dove sarebbe poi sorto il monastero di Santa Caterina di Brera e portava il nome di “Domus de Blasono”, dalla prima fondatrice. 

Ci fu un tempo, dunque, in cui fu la provincia rurale a proporsi come modello per la città. Oggi abbiamo l’occasione di onorare la memoria dei nostri avi, facendo nuovamente di Biassono una comunità dell’agire. Una comunità che non abbia bisogno di conurbanizzarsi per vivere, ma possa trovare in sé tutte le risorse di cui davvero necessiti.