Diceva il conte Verri...

"La voce della verità comincia da lontano a farsi ascoltare, poi si moltiplicano le forze, e la opinione regina dell'universo sorride in prima, poi disputa, poi freme, poi ricorre alle arti, poi termina derisa: questo è il solito gradato passo che fa la ragione a fronte dell'opinione" (Pietro Verri)

DOSSIER: ECOBIASSONO


IL NOSTRO BENESSERE
di Marina Terraneo



“Non troveremo mai un fine per la Nazione, né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto interno lordo. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine­settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle[...]
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. [...] Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.

Robert Kennedy, 18 marzo 1968, Università del Kansas



Sono passati più di quarant'anni da queste parole, pronunciate da Robert Kennedy poche settimane prima di essere assassinato: che cosa rimane di quella salvifica utopia?
Il suolo è una risorsa non rinnovabile che l’uomo, con le sue attività, ‘consuma’: le abitazioni, le strade, le ferrovie, le industrie occupano porzioni di territorio trasformandole in modo pressoché irreversibile. Il ritmo di questi processi è cresciuto e continua a crescere.
Qui, nella Brianza della diossina, della catastrofe ecologica di Seveso e dei vergognosi quanto incivili sversamenti di idrocarburi nel Lambro (il suo fiume simbolo), nella Brianza del mostro di cemento e asfalto chiamato Pedemontana, lo sconsiderato consumo di territorio avanza senza memoria degli errori commessi.
Una vera e propria aggressione del cemento, in linea con un modello di sviluppo superato ed ormai inadatto ai nostri tempi, ma inevitabilmente l’unico ad essere preso sempre in considerazione.
Osseravando il grafico qui espoto risulta chiaro che a Biassono, così come in tutta la provincia di Monza e Brianza, il consumo del suolo ha ormai raggiunto dimensioni molto significative, toccando livelli che, purtroppo, ci collocano ai primissimi posti su scala europea.




Biassono, a fronte di 407mq procapite di superficie a disposizione, ne ha già urbanizzati 273. Quanto rimane appare veramente limitato per la nostra vivibilità.
Alcuni studi europei sostengono infatti che, oltre la soglia del 35% del territorio urbanizzato, le capacità multifunzionali del suolo iniziano ad essere in seria difficoltà, anche per via della compromissione delle sue proprietà drenanti.
Se la soglia raggiunge il 50%, si è già davanti ad una situazione giudicata grave, avendo compromesso la gran parte degli equilibri naturali, al pari della possibilità di autoripristinare equilibri precedenti.
Se infine la soglia raggiunge il 75%, la situazione risulta quasi irrimediabile.
Ogni giorno assistiamo ad una corsa sfrenata verso la distruzione degli ultimi spazi agricoli e naturali, senza mai considerare il consumo di suolo inutilizzato: appartamenti che sbucano come funghi, capannoni, edifici pericolanti non utilizzati, sprechi che non hanno nessun beneficio ai cittadini, né hanno valore per la qualità della loro vita.
Non tutto è perduto. Senza compromettere gli equilibri economici, un’inversione di tendenza è ancora possibile.  Alcuni Comuni ci stanno provando. Altri ci stanno riuscendo.  Comuni virtuosi, che hanno deciso di voltare pagina e di adottare modelli di sviluppo sostenibili, compatibili con l'ambiente, modelli che aumentano in modo tangibile il benessere e la qualità della vita di tutti gli esseri viventi.

PROVIAMOCI ANCHE NOI! BIASSONO HA LA SUA CHANCE.
Pensiamo globalmente  e agiamo localmente. 
                                                        

LE ORTO CITTA’
di Alberto Caspani




Prato all’inglese addio. Nell’epoca dell’ecosostenibilità, diviene sempre più imperativo privilegiare gli aspetti produttivi su quelli estetici, evitando inutili sprechi e distorsioni delle potenzialità di natura. Ogni spazio, ogni lembo di terra, torna cioè ad essere protagonista nello sforzo di ricreare microhabitat fra di loro non conflittuali, ma in grado soprattutto di garantire indipendenza nella vita quotidiana dell’uomo.
Se il rivoluzionario progetto d’allestimento delle “eco-città” in Gran Bretagna (http://transitionculture.org/in-transition/), fortemente sostenuto dal governo del premier Gordon Brown, mira a compendiare le ultime dottrine in materia, in realtà grandi passi possono essere compiuti già all’interno dei tradizionali spazi urbani. Senza investimenti miliardari o pubblicità interessate. Semplicemente dando vita a delle “orto-città”.
Fra gli esempi d’inizitive virtuose, finalizzate a ridare dignità al verde cittadino,  viene citato spesso il caso di un uomo della Tasmania che, sul finire degli anni ’70, ebbe un’idea semplice, ma capace di spiazzare addirittura il governo australiano: sfruttando la “striscia di natura” che aveva a disposizione fra il marciapiede di casa e la strada, decise di piantarvi dei cavoli. Dapprima la municipalità, poi le istituzioni di più alto grado si accanirono affinché sradicasse la sua produzione, rea di non essere “consona” ai criteri di decoro urbano.
L’episodio, di per sé paradossale, portò in luce quel che in fondo è un pregiudizio instillatosi nella nostra cultura, a seguito della funzione politica che proprio gli anglo-sassoni attribuirono al verde, onde rimarcare le differenze di status. Una forma mentis che ha trovato facile attecchimento pure in Italia, dove le regole formali elaborate nella creazione dei giardini rinascimentali si sono tacitamente trasmesse nei più raffinati piani di gestione urbanista contemporanea.
Pulizia degli spazi, cromatismi esasperati, ordine e geometria: gli imperativi del gusto estetico di città non sono altro che la trasposizione simbolica di una filosofia aristocratica, dove il non produrre è chic, perché manifesta la possibilità di mantenersi delegando ad altri i compiti di fatica (basti pensare alle soluzioni sempre più ingegnose ed impersonali cui le amministrazioni comunali fanno oggi ricorso per abbattere i costi di manutenzione del verde).
Il prato è la prima vittima illustre di questo modo di vedere. Estirpato di qualunque presenza esogena, tollerato non senza un certo dispetto nel momento in cui conceda spazio alle fioriture, il suo mantenimento costa solo negli Stati Uniti più di qualunque altra attività agricola nel mondo, tant’è che l’equivalente delle risorse utilizzate per curarlo sarebbe in grado di sfamare interi continenti. E’ ancora l’immaginario del prato all’inglese ad aver tolto ogni forma di spontaneità alle aiuole di città, così come alle coltivazioni da appartamento, deputando tali sedi a mera vetrina dell’ornamentalità di natura.
Rendere produttivi i piccoli spazi verdi del contesto urbano significa invece regalare più autonomia all’individuo, contenere le spese di coltivazione e, soprattutto, di distribuzione, ritrovare un filo rosso fra l’uomo e la natura. Torna dunque a farsi spazio una tendenza già da lungo tempo apprezzata dai sostenitori della permacultura, ovvero da coloro che mirano ad ottimizzare il rapporto di convivenza proprio fra l’uomo e la natura.
“Più che di giardini urbani – osserva Mara Praturlon, esperta in materia – sarebbe ora si cominciasse a parlare di orti urbani, visto che questi ultimi possono soddisfare tranquillamente le aspettative insite nei primi, offrendo al contempo un prezioso contributo al miglioramento effettivo della qualità della vita. Se si pensa alle quantità di cibo che si possono produrre dedicandosi alle coltivazioni su davanzali, balconi, tetti o stretti marciapiedi, regalando altrettanto fascino agreste ai nostri spazi, appare manifesta la limitatezza dell’approccio estetico al verde”.
Le piante possono infatti essere coltivate in vasi persino all’interno delle case, purché sia possibile spostarle in posizione soleggiata (avendo bisogno in fase di crescita di almeno sei ore d’irraggiamento); dall’altra, il ventaglio dei contenitori è quanto mai ampio e duttile: si passa dai semplici vasi di plastica ai cestini per la carta straccia, dalle vecchie ceste alle scatole per giocattoli. In ogni caso, questi vanno forati per permettera la fuoriuscita dell’acqua in eccesso, facendo attenzione che il loro peso non faccia crollare i davanzali. In particolare, per la coltivazione in contenitori di plastica su terrazzini e tetti, si utilizza una miscela di terriccio leggero necessitante di annaffiature più frequenti.
“E’ chiaro che occorrono contenitori più profondi nel caso si coltivino ortaggi da radice – prosegue Praturlon – ma nulla di così complesso da far desistere nella creazione del personale orto da appartamento. Per le patate, ad esempio, bastano un fusto da 200 litri, una scatola di legno o, nel caso di uno spazio all’aperto, vecchie traversine della ferrovia o copertoni. I tuberi da seme si sistemano invece all’interno di un contenitore su un letto di pacciamatura, da cui vengono poi ulteriormente rivestiti. Quando la patata germoglia e cresce, si aggiunge altro pacciame, fino a quando le foglie non fanno capolino dal contenitore. In questo modo i tuberi si formano sulle gemme coperte e sono più facili da raccogliere rispetto a quando sono coltivate in piena terra”.
L’importante è saper scegliere piante od essenze che possano essere consumate facilmente, optando per le specie che possono essere raccolte almeno due volte la settimana: in tal caso vanno bene piccoli peperoni o pomodori, ma anche prezzemolo, erba cipollina, bietole e lattuga. Se lo spazio è davvero limitato, meglio concentrarsi solo sulle aromatiche come il timo, la maggiorana o il basilico.
Per quanto riguarda la scelta dei davanzali, i contenitori più indicati sono cesti o ripiani, o ancor più una finestra trasformata in serra chiusa, collocata all’esterno sul lato soleggiato. Su verande e piccoli patii, i vasi si possono invece disporre su gradinate con le piante più alte dietro, in modo che queste non ombreggino le specie a taglia più ridotta poste davanti. Due o tre ripiani di vasi, o di lunghe cassette di terriccio, possono essere sovrapposti verticalmente.
Altri modi per coltivare piante commestibili in piccoli spazi si basano sulla produzione di germogli di erba medica, girasole e fagiolo mungo e sulla coltivazione di funghi; in quest’ultimo caso, però, è necessario un luogo fresco e buio.
“L’ambiente domestico offre fra l’altro grandi risorse di compostaggio – aggiunge Praturlon – dal momento che gli avanzi da cucina possono essere tranquillamente raccolti in un sistema a due secchi, posti magari sotto il lavello. Benché ci siano scarti dai tempi di decomposizione più lunghi, come le bucce di arancia o i gusci d’uovo, il processo può essere accelerato spezzettandoli finemente. Non dimentichiamoci poi, per chi vive in appartamento, l’estrema utilità di far crescere le piante su un graticcio posto attorno alla veranda o al balcone, oppure addossandole al muro fuori dalla finestra”.
Quanti possiedono invece piccoli appezzamenti di giardini, possono convertirne almeno una parte a sezione produttiva, attraverso comode aiuole circolari che sposano utilità pratica e meriti estetici. Queste sono particolarmente consone in caso di terreni duri, o da molto tempo incolti, dal momento che presentano diversi vantaggi pratici: innanzitutto il risparmio idrico, visto che uno spruzzatore irriga meglio un’area circolare che lunghi filari; quindi la concentrazione delle sostanze nutritive, divenendo l’aiuola una sorta di “discarica” per tutti gli avanzi da cucina e dunque un fertilissimo bacino d’humus; infine sono adatte per i climi più difficili (soprattutto aridi) e per terreni scomodi da coltivare.
Per scavare la base dell’aiula basta un circolo di 1.2 metri di diametro, con profondità pari a quella di una vanga; il perimetro va recintato con una semplice rete da pollaio in verticale, in modo da formare un cilindro alto 60 centimetri da riempire nella parte inferiore con un po’ di terra, sì da fissare la rete sul posto. A questo punto si potrà iniziare a riempire la buca con strati di avanzi d cibo, composto, foglie o rametti, alternati con strati delle terra messa da parte in precedenza (arrivando via via sino all’estremità). Le consociazioni delle specie sono molto libere: in genere si punta all’abbinata piante a crescita rapida e lunga (come le carote, lo scalogno, i ravanelli, i broccoli), in modo da raccogliere le prime mentre le seconde crescono. Si consideri che un’aiuola di questo tipo è in grado di rifornire d’insalata una persona per un anno intero, senza richiedere neppure operazioni complicate per l’innaffiatura: è sufficiente uno spruzzatore sopra un bastone nel mezzo del cerchio, oppure si può utilizzare un sistema a goccia sospeso a paletti.
Qualunque sia il modello prescelto, ciò che in realtà conta è dunque la riscoperta della progettualità degli spazi urbani alla luce di una migliore integrazione col mondo naturale. Bastano in fondo piccoli accorgimenti ed un poco di fantasia per rievocare la tipica atmosfera di campagna nel tessuto urbano, imparando a vivere meglio nei propri spazi, ma contribuendo anche in prima persona a difendere l’ambiente dall’invasività umana.



L’HUMUS RITROVATO
di Alberto Caspani



Il rispetto dell’ambiente comincia dall’orto e dal giardino di casa. Frastornato da campagne mediatiche che, di volta in volta, hanno individuato i principali responsabili del deterioramento della Terra nelle politiche governative, nelle speculazioni delle multinazionali, o in generale in soggetti sempre a sé dall’individuo in carne ed ossa, il consumatore odierno ha così finito per sentirsi quasi “deresponsabilizzato” rispetto alle cause prime delle grandi problematiche ecologiche.
Una condizione contro la quale si battono invece metodologie di coltivazione e progettualità che si riconoscono alternative allo sfruttamento chimico della natura, quali ad esempio l’agricolura biodinamica.
Inquinamento delle falde freatiche, morte del terreno, erosione del suolo, ma anche alimenti di pessima qualità, distruzione del ciclo chiuso e dell’agroecosistema, per non tralasciare gli alti costi di produzione e l’uso sempre più massicco di diserbanti ed antiparassitari: questi fenomeni di deterioramento ambientale sono riscontrabili gettando semplicemente uno sguardo oltre la porta di casa, di fronte alle frequenti fitopatologie e ai problemi di salute che finiscono per coinvolgere lo stesso consumatore.
Eppure basterebbe recuperare alcuni principi basilari del prendersi cura della terra, sì da contribuire al suo risanamento (e al benessere individuale) già con le nostre stesse forze.
Un sentore di quanto oggi stiamo vivendo era stato avvertito dai coltivatori sin dai primi del Novecento, quando l’insterilirsi dei terreni spinse ad avvicinarsi agli insegnamenti di una delle figure più significative dello scenario filosofico-scientifico di allora: Rudolf Steiner, il fondatore della Società Antroposofica (cioè del sapere sull’uomo). Nel 1924 egli aveva tenuto una serie di conferenze nella città di Koberwitz, in Polonia (al tempo Germania), al termine delle quali nacque ufficilamente il concetto di “agricoltura biodinamica”: un’evoluzione dell’agricoltura biologica, cioè del metodo di coltivazione praticato dall’uomo sin dal Neolitico, oggi riadottato su scala nazionale in paesi alquanto evoluti come la Svizzera o l’Australia.
Si tratta di una risposta all'avvento dell'agricoltura chimica che, dagli anni ’30, si è imposta nella maggior parte dei paesi industrializzati: quest’ultima si basa sul concetto secondo cui conoscendo le quantità di azoto, fosforo e potassio (“teoria Liebig”), nonché le esigenze nutrizionali della singola pianta, è sufficiente apportare artificialmente concimi chimici, grazie ai quali evitare la rotazione colturale e specializzarsi invece in un unico indirizzo produttivo (orticolo, frutticolo, floreale, foraggero, zootecnico, avicolo…).
La situazione si è poi aggravata ulteriormente dopo la seconda guerra mondiale, con il diffondersi dell'uso di diserbanti e antiparassitari. Essi hanno il compito di dover uccidere solo le piante o gli insetti dannosi, ma il risultato di tutto ciò è stata l'uccisione della vita del terreno, che garantiva invece all'agricoltore l'autosufficienza, non potendo essi distinguere tra ciò che è buono e ciò che è dannoso.
“In biodinamica si lavora dunque per ricreare l’humus nel terreno – spiega Marcello Lo Sterzo, segretario laziale dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica – dal momento che lì vive la “testa” della pianta, cioè il suo apparato radicale. Più humus significa infatti aumento delle rese produttive, aumento delle riserve idriche del terreno per la presenza di una sostanza colloidale, annullamento dei fenomeni erosivi, ma anche maggior produzione di ossigeno. Grazie alla biodinamica è possibile raggiungere un’autosufficienza nella coltivazione che sfiora il 100% della produttività, traguardo impossibile seguendo i metodi chimici, dove si viene sempre a dipendere da fattori esterni”.
L’humus è un preparato di pura derivazione naturale, frutto della depositazione sul suolo di residui di sostanze vegetali (foglie, radici, frutti, fiori, rami, steli) ed animali, che vengono così a formare una “sostanza organica”. Questa viene successivamente decomposta dai microrganismi del terreno (microflora e microfauna) e trasformata in ciò che definiamo appunto humus.
Un processo simile esiste ed è sempre esistito in natura, ma risulta estremamente lento, dal momento che per aumentare nel suolo almeno l’un 1% di sostanza organica (nei suoi primi 30-40 cm), occorrono decine di secoli, riferendosi ovviamente ai sistemi naturali delle foreste. Nelle coltivazioni biodinamiche tale risalita è invece stupefacente ed avvienee nel giro di 4-6 anni: il progressivo scurirsi del terreno, per via del riprodursi della microflora e della microfauna, è il segno più manifesto del corretto svilupparsi dell’’humus.
L'agricoltura biodinamica può essere praticata a partire anche da un semplice vaso di fiori, ma per poterne apprendere bene i principi è cosa buona partecipare ad almeno uno dei corsi tematici che vengono organizzati dall'Associazione per l'Agricoltura Biodinamica in Italia. Parallelamente si possono consultare i siti internet www.agricolturabiodinamica.it, www.rudolfsteiner.it, o anche www.losterzo.it; esiste infine una ricca bibliografia sia in italiano che in inglese, tedesco e francese, che è reperibile sui siti internet indicati.
Sono presenti in ogni caso prodotti biodinamici commercializzati sul mercato, i quali -  oltre ad una certificazione obbligatoria ai sensi delle leggi europee sul biologico – sono riconoscibili dal marchio “Demeter”, registrato in tutto il mondo e nato nel 1928. Vengono realizzati da aziende biodinamiche diffuse su tutto il territorio nazionale, per quanto le regioni con più alta concentrazione siano indubbiamente  la Toscana, il Piemonte, il Veneto, l'Abruzzo e il Lazio. Un particolare interesse nei confronti dell'Agricoltura Biodinamica è poi cresciuto in questi ultimi anni anche nel settore enologico.

I preparati in commercio consentono di “vitalizzare” il terreno creando humus sino ad una profondità di 30 o 40 centimentri, quando in realtà le migliori faggiate presentano uno strato simile al massimo sino ai 20 centimetri.
“Vanno conservati in contenitori di puro rame alimentare – consiglia Lo Sterzo – i quali a loro volta sono immersi nella torba naturale, senza aggiunta di concimi chimici o altre sostanze. Il tutto è riposto all'interno di una cassa di legno naturale privo di alcun tipo di collante o vernice chimica. Il coperchio che chiude la cassa deve contenere anch’esso torba al suo interno, mentre la cassa può essere posta o all'interno di una casetta di legno, o all'aperto, purchè sia riparata dalla pioggia, oppure in una stanza dove non vi siano sostanze inquinanti (elettricità, campi magnetici, tubi di scappamento…)”.
Il preparato dev’essere costantemente monitorato nel corso dell’anno, poiché risente dell'andamento climatico. Il 500, o cornoletame, viene allestito in autunno prendendo del letame di vacche che abbiano figliato, che sono al pascolo e che mangino solo erba verde (anche nel letame sussiste infatti un discorso di qualità). Con questo vengono riempiti possibilmente dei corni di vacche lattifere e posti sotto terra fino alla primavera successiva. Quando vengono estratti, nello svuotarli si nota che il contenuto si è completamente trasformato, presentando una composizione colloidale.
Questo preparato, indicato da Rudolf Steiner, ha subito un’ulteriore elaborazione per via delle ricerche di Alex Podolinsky, tant’è che oggi viene posto dentro contenitori di rame insieme ai preparati biodinamici da cumulo e lasciato maturare per circa tre mesi. Alla fine si ottiene appunto il 500 preparato. Fra di essi il “501” ,o cornosilice, è l'unico che viene invece conservato all'aperto, all'interno di un vaso di vetro posto sopra un davanzale e al sole. Ma fra i preparati biodinamici da cumulo si annoverano anche il 502 (“Achillea”), il 503 (“Camomilla”), il 504 (“Ortica”, su su sino al 507 (“la valeriana”). Caratteristica di tutti i biodinamici da cumulo è che risultano colloidali e in essi avviene sempre la "transustanziazione", cioè la completa e totale trasformazione della materia prima originaria. La valeriana è l'unico preparato da cumulo liquido, dal colore simile all’oro, mentre altri preparati possono avvalersi della tecnica “a spruzzo”.
Esempi di giardini ed orti coltivati secondo il metodo biodinamico non sono certo rari in Italia. Si distinguono per il loro straordinario rigoglio, per la capacità di soppiantare in breve tempo fiori e piante soggette a deperimento stagionale, ma anche e soprattutto per l’intensità dei colori e dei profumi. Bastino semplici visite alle Casine Orsine di Zelata di Bereguarda (Pavia), il complesso “Arte ed Orto” dei fratelli Zisa a Santa Croce di Camerina (Ragusa) o ancora la “Nuova Cappelletta” di Vignale Monferrato (Alessandria), dove si produce un vino particolarmente apprezzato negli Stati Uniti. Ma è chiaro che armandosi di pazienza e seguendo i consigli che vengono dispensati nei tanti corsi in programma, l’orto o il giardino più coinvolgente potrebbe essere proprio quello fuori da casa nostra.
ESEMPI DI AZIENDE BIODINAMICHE

FRATELLI GRAMAGLIA

Ubicato a Collegno, il vivaio dei fratelli Marco e Paolo Gramaglia è uno dei più antichi d’Italia, essendo attivo sin dal lontano 1896. Oggi è condotto dalla quarta generazione di coltivatori di famiglia, impegnata dagli anni ’90 ad allargare ulteriormente le tipologie di essenze a disposizione, concentrandosi sulle piante aromatiche e medicinali (tanto d’aver costituito un vero e proprio archivio tematico). Il loro sforzo di ricerca tecnica e culturale ha raccolto molti riconoscimenti nel settore, fra cui quelli della manifestazione “Tre giorni per il giardino” di Masino e “Les journée des plantes de Courson”, nei pressi di Parigi, dove i fratelli Gramaglia hanno ottenuto nel 1999 il primo premio mai assegnato ad un’azienda italiana. Fra le varietà di spicco, vanno segnalate alcune rare piante esotiche come lo spinacio di Ceylon (Basella rubra), rampicante ornamentale e commestibile al tempo stesso, o il Cymbopogon Citratus, pianta dalle foglie allungate che emanano un gradevolissimo profumo di limone, utili per preparare medicamenti o insaporire tisane e tè.

CASCINA MOLINO TORRINE

Quest’azienda agricola di Cavaglia (Biella), ospitata in un bellissimo stabile dell’Ottocento, si è imposta sullo scenario biologico per via della collaborazione con il vivaio dei fratelli Gramaglia, avviata nel 2004. Tutte le erbe coltivate sono infatti certificate e controllate dall’Icea, nonché raccolte manualmente fra aprile e novembre: molto apprezzate sono l’aneto, il basilico greco, la lippia citriodora e il pepe rosa in foglia. Vengono fra l’altro proposte mescolanze per tisane, insaporitori, misti liofilizzati per risotti e salse prontouso, per ricette di grande ricercatezza. Scopo dell’azienda agricola è quello di salvaguardare e rivalutare coltivazioni aromatiche-ortive e biodiversità, attraverso la gestione di un apposito Hortus Conclusus. Tali essenze non hanno solo valore dal punto di vista della produttività, ma anche estetico, per via delle loro implicazioni paesaggistiche ed architettoniche.

FRATELLI INGEGNOLI

Radicata a Sesto Calende, sulle sponde del Ticino, sin dal 1700, la famiglia Ingegnoli si trasferì a Milano nel 1789, aprendo un vivaio che negli anni sarebbe stato inglobato dallo sviluppo urbano della città, finendo per rappresentare un’oasi di pace al suo interno. Fu merito dei tre fratelli Francesco, Vittorio e Paolo trasformare l’attività floro-vivaistica in uno stabilimento agro-botanico di valore europeo. Oggi, attraverso i suoi vivai in Romagna, Toscana e Piemonte, produce milioni di piantine di varietà orticole destinate alla coltivazione per la produzione del seme, previe accurate selezioni in campo, come pure centinaia di migliaia di piantine arboree selvatiche sulle quali vengono operati innesti per l'ottenimento di piante fruttifere od ornamentali.