"Le
fresche dimissioni dell’assessore Donato Cesana sono sintomo di un malessere
biassonese che affonda in qualcosa di più profondo dei meri trasformismi
politici.
Se a Biassono ha fallito persino un Movimento come la Lega Nord, che
di fronte allo sbando dei vecchi partiti faceva un tempo orgogliosa mostra di
crescere la generazione guida del domani, significa che il nostro piccolo paese
soffre a sua volta di quel complesso di senilità che sta spingendo l’Italia
intera verso il baratro.
Cesana non è infatti un caso isolato: prima di lui,
era toccato al consigliere Igor De Biasio, ora già si vocifera dell’assessore
Gabriele Galbiati, mentre sul fronte opposto è stato lo stesso sottoscritto,
anch’egli classe 1977, a vivere sulla propria pelle il ritorno arrogante e
subdolo di una generazione che, nonostante gli evidenti fallimenti politici
collezionati in passato, ancora si ostina a muovere le pedine del gioco. Perché
proprio di un cinico gioco si tratta per questi habitué dei salotti biassonesi,
che invocano risorse, slancio e impegno in chi è pronto a dare tutto sul campo,
salvo l’agone politico non mostri poi gli inevitabili limiti delle loro strategie.

L’idea di fare un reale passo indietro, di dare credito a quanti vogliono e stanno
costruendo una Biassono altra - altra dagli sterili pregiudizi ideologici,
dagli sclerotizzati schematismi partitici, dai progetti rimasti a ingiallire
per vent’anni o più nel cassetto dei sogni infranti - li spinge a gesti di
stucchevole opportunismo: la Lega Nord si priva delle sue personalità più
propositive, rifugiandosi nel rassicurante abbraccio dei brontosauri di destra;
Forza Italia si affida a un ex sindaco di Macherio, caduto di propria mano e in
politica da svariati decenni; il Partito Democratico, o meglio sarebbe dire
quel che resta della vecchia Democrazia Cristiana, fa saltare un accordo
programmatico con Lista per Biassono senza addurre ragione alcuna: il solo
pensiero che, dalle Primarie, potesse uscire eletto il sottoscritto – guarda
caso classe ’77, come tutti i “ragazzi” oggi fuoriusciti dai quadri amministrativi
– è stato sufficiente per gettare alle ortiche mesi di faticoso lavoro e
confronto.
L’affresco che ne esce, a distanza di pochi mesi dall’avvio delle
grandi manovre, appare estremamente preoccupante: salvo conigli dal cilindro,
la Lega Nord correrà con un candidato sindaco vintage; il gruppo messo in piedi
da Forza Italia (sì, Forza Italia, quel club guidato in Italia da un arzillo
80enne) mette in campo un veterano del Mac-nam, mentre il PD, resuscitato da
tre allegri compagni di merenda che hanno fatto incetta di marmellata in Lista
per Biassono, si rilancia nel modo più paradossale: con un progetto di lista
civica che, sino a cinque anni fa, riteneva “storicamente esaurito”, mettendogli
in groppa un freschissimo pensionato. Voilà: dopo gli ardori napoleonici degli anni
’90, la piena Restaurazione si è compiuta e Talleyrand, ancora una volta, si
starà sfregando le mani compiaciuto.

Confesso
che la tentazione di mandare tutti a quel paese è stata forte: quando cinque
anni fa occorreva ricomporre i cocci di Lista per Biassono, tradita anche allora
da un Partito Democratico con velleità indipendentiste, ho accettato l’incarico
nell’illusione che, in politica, il Bene Comune restasse il massimo valore per
cui spendersi; anche a costo di sacrificare i propri affetti, le opportunità
del lavoro, l’ossigeno vitale di una serena vita privata. In Lista per Biassono
ho trascorso cinque anni entusiasmanti, imparando moltissimo da persone esperte
e altruiste, chiedendo ogni volta che qualcosa m’apparisse ostico; mettendomi
al servizio sempre e comunque, perché forte di una collegialità di squadra assai
rara. Sono entrato in consiglio comunale pensando che una voce di minoranza,
per quanto non decisiva nelle scelte amministrative, potesse comunque offrire
un contributo costruttivo, presentando mozioni, progetti, lanciando spunti e
idee. Dai banchi della giunta leghista mi sono arrivati solo dinieghi senza
alcuna giustificazione, se non quella che “le proposte di Lista per Biassono
vanno bocciate semplicemente perché vengono da Lista per Biassono”.

Già, Lista
per Biassono: non la voce di una parte del paese, ma un mero avversario per la
giunta Malegori. Un nemico. Oggi so che, anche all’interno della Lega Nord,
alcune voci di buon senso si erano levate per cercare una via di dialogo
costruttivo, una progettualità almeno parzialmente condivisibile, ma quelle
voci sono state messe a tacere. Sono state allontanate. Sono state cacciate
dalla tribuna pubblica. In modo non molto dissimile hanno cercato di
“pensionarmi” i tre allegri compagni di merenda con cui, per cinque anni, ho
condiviso un cammino di formazione e che ho voluto partecipi di un sogno;
quelle stesse persone alle quali ho dato tutto quanto le mie vite di
giornalista nomade, o filosofo itinerante, mi hanno offerto. Nonostante tutto,
credo esista ancora qualcosa che ci ostiniamo a chiamare Bene Comune: c’è chi
preferisce definirlo partecipazione, chi felicità, chi coerenza. Esiste, perché
al di là delle delusioni, dei sacrifici, dei voltafaccia, degli opportunismi,
continua a risvegliare il bisogno di giustizia che alberga nel profondo di
ognuno di noi. Le luci, gli strepiti, le parole d’ordine e i vagiti quotidiani
ne assottigliano l’eco sino a non avvertirlo quasi più: ma non disperate.
Provate solo ad ascoltare la vostra voce interiore e lo ritroverete miracolosamente
intonso e fiammeggiante, proprio come nelle vostre inquiete notti d’adolescenti.

Non è infatti l’anagrafe a dividerci fra giovani e vecchi; non sono le
etichette che questa vorace società dei consumi ci appiccica addosso senza
verbo proferire. No. E’ la meraviglia per le strade non ancora battute. Il
coraggio d’inforcare i bivi. La speranza di contemplare un'alba nuova. E in
quell’alba, abbiamo il diritto e il dovere di credere anche noi, eterni
“ragazzi” di un’Italia che ci sta togliendo tutto. Persino il riconoscimento
della nostra maturità. Noi, figli del ’77, fiori di quell’anno su cui troppo
spesso si preferisce glissare, omettere, storcere il naso; e forse non è un
caso se ci portiamo appresso un certo gusto per la provocazione gratuita, così
come un cipiglio scostante, pur volendo sedurre. Per qualche strana alchimia,
dobbiamo aver ereditato un po’ di sangue ironico degli “indiani metropolitani”,
quei simpatici rompiballe barocchi che, alle riunione studentesche del ‘77,
volto dipinto e tazza di carcadé in mano, debuttavano con un ampolloso “Mi
chiamo Galdalf il viola. Parlerò a titolo strettamente personale. Perciò
parlerò a nome degli Elfi del bosco di Fangorn, dei Nuclei Colorati Risate
Rosse, dell’Mpfa (Movimento politico fantomatico assente), delle Cellule
Dadaedoniste, di Godere Operaio e Godimento Studentesco, dell’Internazionale
Schizofrenica, degli Nsc (Nuclei Sconvolti clandestini), della tribù di
Cicorio, dei Cimbles e di tutti gli indiani metropolitani”.

Oggi, forse, la nostra lingua e il nostro
modo di fare appare altrettanto assurdo e insopportabile a chi ci guarda
dall’alto. A quegli arrembanti ultracinquantenni che armeggiano con telefonini
e social network, si riempiono la bocca di fibra ottica e velocità supersonica,
ma sbiancano davanti a un tweet.
Sì, la mia generazione fatica a essere
inquadrata, mette in ansia e talvolta a disagio, probabilmente perché rimanda
al caos, all'anarchia, all'autonomia all'apice del suo potere
creativo/distruttivo, o forse perché ha davvero in sé qualcosa
d'intrinsecamente alieno, un germe di minaccia latente e letale: lo si capisce
sin dal colore delle pellicole che ci ritraggono ancora nel pancione, o appena
deposti nella culla.
Alcune sono diventate rossicce,
verosimilmente per l'accesso di rabbia che l'Eurocomunismo di Enrico Berlinguer
scatenò allora; altre appaiono più verdastre, come se il nostro travaglio fosse
frutto d'ambigue contaminazioni marziane. D'altra parte “Guerre Stellari” (non
la sua parodia 12.0) furoreggiava nei cinema e, a quel tempo, tutti sedevano
davanti allo schermo, anziché dentro: sia chi aveva il biglietto, sia chi non.
Nelle sale si andava per fare l'amore, non per invidiare le tette di Bo Derek,
e se in strada s'intonava “su, su, su, i prezzi vanno su/la prima visione non
la paghiamo più”, si aveva l’audacia di reclamare in massa il blocchetto dei
biglietti da 2.500 lire, per rivenderli poi a 500. Alla faccia di chi, oggi, ci
vuole supini automi. Di chi ci additerebbe subito un furto, un’inaccettabile violazione.
Eppure ieri si chiamava “autoriduzione”, diritto al consumo nell'era del
(falso) sacrificio.

Cortocircuiti. Difetti di produzione.
Esperimenti mal riusciti sulla qualità delle pellicole. Checché si dica, nel
1977 qualcosa è andato davvero storto. Si pensava di lasciarsi alle spalle il
passato, di far piazza pulita di un mondo imbolsito, ma non ci si è spinti al
di là della negazione a tutti i costi, dando origine a variabili inaudite. Sono
stati presi tutti in contropiede. Attori e spettatori.
Sui muri dell'università di Roma
scrivevano: “Non è il '68. E' il '77. Non abbiamo né passato, né futuro. La
storia ci uccide”. A Londra i Sex Pistols urlavano “No future”, “Anarchy in the
UK”. Dalla sponda opposta del Tamigi rispondevano i Clash: “London's burnin'”,
“1977: no Elvis, Beatles or Rolling Stones!”.
Begli slogan, ma alla fin fine sono i vecchi
proverbi a restare in mente. “Can che abbaia non morde”: i nostri saccenti padrini
tengono tuttora stretti i privilegi su cui avevano sputato ai tempi della
piazza, incensandosi a profeti del neoliberismo d’assalto. Nel 1998 la
televisione celebrò il 30° anniversario dell'anno che cambiò la storia con
fanfare da salotto, film revival e il pingue volto di Liguori ad incarnare i
sogni di Mario Capanna. Oggi non una parola sincera sugli anni della rabbia.
Non un accennno ai suoi martiri e ai suoi provocatori. Non un raffronto schietto
coi brigatisti di ieri. Non una parola spesa sul “perché” e il “come” del
terrorismo politico. Solo chiacchiericcio alla Bruno Vespa. Pruriginose Isole
dei Famosi; guai però a ricordare la rubrica “Proibito” di Enzo Biagi, dove il
nudo era scandalosamente nudo e non certo un’esca per pesci bolliti.

Nonostante gli spilloni da balia,
conficcati dai punk nell'effigie di Elisabetta II, la Regina è più in sella che
mai e non ha perso il cattivo gusto per i tailleur sgargianti; certamente
qualcuno ha pagato caro: il 16 agosto del '77 si è spento per sempre il
microfono di Elvis, così come altri grandi hanno gettato la spugna. Da Chaplin
alla Callas, risalendo al maldestro centrocampista della Lazio Luciano Re
Cecconi, freddato dall'amico gioielliere per l'assurda messa in scena di una
rapina. Chi è rimasto, non è più stato lo stesso: i Rolling Stones hanno
fissato così a lungo l'indice solenne del candido John Travolta, finendo per
trasformarsi da “street fightin' musicians” a icone prigioniere del loro stesso
mito.

Gira e rigira la storia finisce per
ripetersi, ma in Italia e a Biassono si autoclona sino alla nausea: qui lo
spirito del 1977 è l'unico a essere morto e sepolto, al pari dello sfortunato
Joe Strummer. Chi si ricorda più dello studente di medicina Guido Bellachioma,
vittima delle pistole di Roma il 2 febbraio? Chi ha reso giustizia a Francesco
Lo Russo, militante di Lotta Continua finito con un proiettile nel petto l'11
marzo a Bologna, nel giorno più cruento che la Prima Repubblica ricordi? Chi
piange la “povera” Giorgiana Masi, accasciatasi il 13 maggio sulle strade
dell'Urbe, per un dolore allo stomaco che ha affossato il futuro stesso del
femminismo? E con loro, sono stati inghiottiti nel grigiore dell'eccesso decine
e decine di altri giovani insoddisfatti, emarginati, sfruttati, dimenticati,
che per fortuna si sono persi il voto degli operai per Berlusconi, il declassamento
dell'Urss di Lenin a innocuo cimelio, ma anche il tramonto dell'ero a favore
della coca, la smentita del sesso vaginale come atto di prevaricazione sulla
donna libera, la presa alla lettera di “Porci con le ali”. Bene o male che sia,
urgerebbe prendere una posizione. Oggi si alzano le spalle, perché se tanti
sono i meriti del '77, altrettante le sue colpe: ci dicono che ha aperto la
strada al disimpegno, all'edonismo, al precariato, lasciando solo ombre
contraddittorie.
Tutto vero. Acuti di rabbia, tracce di
violenza e un inquietante sentore di morte aleggiano ancora su quell'annata e,
soprattutto, su chi di essa se ne sente figlio. E' aria viziata, a tratti
rarefatta, a tratti così densa da togliere il respiro.
Per questo chi è nato nel '77, chi si
porta dentro la sua rabbia qualunque sia la reale età, non conosce oggi altra
via da calcare se non la fuga. Amiamo sottrarci, defilarci, fare i preziosi,
amiamo bearci del nostro diniego e della nostra nudità, sino ad apparire più
esibizionisti degli adolescenti arrapati, più irresponsabili dei bimbi grassi,
più inibenti dei contratti a progetto, dei co.co.co e dei
cipì-cipì-voglio-uscire-di-qui.

Abbiamo un bisogno compulsivo di
viaggiare, forse perché la terra ci scotta sotto i piedi: così giriamo il
mondo, spingendoci dalle sabbie del Sahara ai ghiacci della Yakutia, per
incontrare ovunque lo stesso martellante silenzio. Abbiamo bisogno di alcool e
droga, perché la quotidianità è talmente trasgressiva che ha perso tutta la sua
eroticità: una donna dietro l'altra, tutte terribilmente uguali, nel momento in
cui rivendicano la loro inconsapevole sottomissione, il loro diritto alla
proprietà e al silicone. E che dire degli uomini digitali? Ridicoli nel loro
scambiare l'atavico nomadismo in bieco ronzare attorno. Abbiamo bisogno dei
condom, perché ci hanno tolto persino il diritto di fidarci dell'altro: tutti
nell'occhio del Grande Fratello, ognuno con una maschera sempre nuova. Abbiamo
bisogno di tutto, ma non abbiamo la forza per niente.
Aspettiamo. Assentiamo democraticamente.
Tutt'al più brontoliamo sui giornali, benché la legge non sia mai uguale per
tutti. Ma quando dritto e rovescio assumono lo stesso colore, non resta che una
sola scelta: meglio cadere con una ferita al cuore, piuttosto che con una
pugnalata alle spalle".
Sveglia Biassono, la via è aperta!
Alberto Caspani
Capogruppo di Lista per Biassono