Diceva il conte Verri...

"La voce della verità comincia da lontano a farsi ascoltare, poi si moltiplicano le forze, e la opinione regina dell'universo sorride in prima, poi disputa, poi freme, poi ricorre alle arti, poi termina derisa: questo è il solito gradato passo che fa la ragione a fronte dell'opinione" (Pietro Verri)

martedì 31 luglio 2018

EDUCARSI ALLA MORTE A BIASSONO

Riposate in pace, biassonesi. L’ultimo consiglio comunale prima della pausa estiva, in calendario giovedì 26 luglio, ha definito nei minimi dettagli i servizi funebri e la polizia mortuaria del nostro Comune, approvandone il regolamento. Primo importante passo in vista dell’adozione finale di un Piano regolatore cimiteriale, da ottemperare entro un anno e valido per i prossimi 20. 

Nel documento votato in Villa Verri sono riportate tutte le indicazioni utili: definizione delle responsabilità, procedure di deposizione della salma nel feretro, procedure di inumazione, tumulazione o cremazione. Come denunciare i casi di morte e quali precauzioni prendere. Difetta solo di un aspetto fondamentale: di umanità

Nonostante il regolamento biassonese rappresenti uno dei rari contributi della nostra società per far fronte all’inevitabilità della morte, manifesta anche il suo vizio peggiore: una ragione fredda e calcolatrice, che si preoccupa innazitutto di oliare un meccanismo procedurale attento alla forma, ma sempre muto sulla sostanza. La morte in sé, come fenomeno esistenziale, resta tabù. Non se ne vuole parlare, perché nessun ambito pare mai adeguato a un’esperienza tanto sconvolgente. Eppure, un buon regolamento pubblico dovrebbe essere in grado di riconoscere la necessità di non limitarsi a servizi materiali, ma anche di natura spirituale (distinti dunque dai servizi religiosi), partendo proprio dalla considerazione degli spazi deputati alle funzioni mortuarie. 

Il cimitero non è solo l’area a mappale dove raccogliere le tombe dei cittadini deceduti, ma il luogo sacro che ci mette in contatto col più grande mistero della nostra vita, sospendendo ogni possibile giudizio: è una terra di mezzo, il punto di incontro fra gli stati ordinari e non ordinari di coscienza. Il cimitero risveglia la domanda radicale sull’oltre, su ciò che trascende la nostra esistenza individuale per proiettarla verso il riconoscimento di un senso

Proprio per la sua neutralità, in grado di far convergere credenze religiose, dogmi atei o attitudini agnostiche, ma in virtù anche della possibilità di meditare e contemplare da vicino la fragilità dell’esistenza, il cimitero dovrebbe offrire un ritrovo attrezzato e aperto a tutti i cittadini, nel quale poter discutere quotidianamente sull’esperienza della morte. 

Parlare di tutto quanto la radio, la televisione, i giornali, i nostri stessi amici si ostinano a tacere o a evadere, per sviluppare un cammino di consapevolezza indispensabile a non lasciarci soli. Perché non ci saranno né medici, né uomini di fede, né impiegati comunali oltre la soglia della nostra esistenza ordinaria. Quando la morte segnerà il punto. 

In un confronto avuto con la dottoressa Valentina Vettor, psicologa e psicoterapeuta funzionale che lavora presso lo SpazioMenteCorpo di Treviso, è emersa un'interessante considerazione su cui continua a non essere portata sufficiente attenzione pubblica: “Le persone sono poco preparate alle esperienze di sofferenza, di paura e di lutto. O evitano il più possibile il contatto con queste emozioni, creando scollegamenti interiori, o vengono travolti dal dolore, che diventa assoluto. Bisogna educarci alla morte”. Quando il peso della morte diventa insostenibile, o ci si chiude in una dimensione di annichilimento, o si cerca disperatamente una parola capace di riaprire il senso dell’esistenza. 

Oggi sono per lo più spazi privati che si prendono carico di affrontare quest’emergenza, senza ricondurla ai percorsi predefiniti delle credenze personali. Eppure esperimenti per prevenire lo stato d’emergenza, quando cioé la persona è ancora in grado di confrontarsi lucidamente sulla morte, senza farsi travolgere da emozioni o ricordi, hanno indicato una via utile per le istituzioni pubbliche. Grazie all’iniziativa di Laura Campanello, consulente etica e pedagogica nell’accompagnamento alla malattia e al lutto, sono stati organizzati a Merate (LC) ritrovi per una meditazione condivisa sulla morte, ispirati ai Death Café della tradizione britannica. Iniziative capaci di sviluppare una consapevolezza più profonda senza l’ausilio di guide specialistiche, ma attraverso un confronto di carattere fenomenologico: osservazioni personali, unite alla lettura di contribuiti letterari, studi e riflessioni sulla morte prodotti dall’antichità a oggi, permettono di ricreare le condizioni per fare esperienza della morte senza doverla subire. Una funzione che lo psichiatra Stanislav Grof, fra i massimi esperti mondiali nella ricerca sugli stati non ordinari di coscienza, ha riconosciuto appartenere a quei riti di preparazione tipici di tutte le culture non occidentali e basati sulle cosiddette esperienze “olotropiche”: processi in grado di portarci verso quella dimensione dell’oltre, o della completezza, che l’uomo ha tradizionalmente cercato attraverso tecniche sacre e uso di sostanze psicotrope. Grof ne parla in modo chiaro e approfondito nell’ottimo testo “L’ultimo viaggio”, edito da Feltrinelli.

Il punto cui la ricerca scientifica sta pervenendo appare quasi paradossale: una conferma di quelle verità che da millenni sono rivelate nelle culture tradizionali e che l’approccio occidentale al sapere ha profondamente combattuto, o liquidato come superstizione, fantasia o follia. Esiste cioé un mondo dei morti, al pari di quello dei vivi, che può essere esperito uscendo dallo stato ordinario di coscienza. Un mondo, o mondi altri, nel quale le azioni compiute in vita comportano specifici effetti e determinano il cammino esistenziale di ognuno di noi, al di là delle manifestazioni spazio-temporali di cui siamo consapevoli.

Nell’antichità, ma ancor oggi nelle culture indigene, nelle civiltà orientali o nelle correnti mistiche delle religioni, la preparazione e l’educazione alla morte permettono di crescere persone capaci di affrontare le difficoltà più estreme con una serenità spirituale ben diversa da quella della nostra società. E' tempo che i Comuni, così come gli altri enti e istituzioni pubbliche, si facciano carico di questa nuova consapevolezza e creino le condizioni per dare un senso più esaustivo a quella fredda espressione che risponde a “servizi funebri”. I cimiteri rappresentano il banco di prova per la maturità spirituale sviluppata da una comunità, oltre che un luogo esclusivo per saldare legami interpersonali e infragenerazionali gradualmente annientati dal modello economico neoliberista. I cimiteri, infatti, sono spazi di memoria collettiva, dove l’esempio dei cittadini più meritevoli, cioé capaci di sacrificarsi per l’altro, andrebbe sempre valorizzato attraverso “percorsi della memoria” corredati di specifica segnaletica ed epigrafi evocative. Una rinnovata declinazione del classico “memento mori”, che si trasformerebbe specularmente in un “memento vivere”. Ricordati di vivere. 

Augurando un’estate che possa portare nuove occasioni di consapevolezza grazie alla riappropriazione del nostro tempo più intimo, così come attraverso l’esperienza del viaggio, lasciamo in dono una lettura che aiuti a meditare su quale sia il percorso più vicino alle esigenze di ciascuno di noi: uomini, ancor prima che cittadini.  

Alberto Caspani 
  Capogruppo di Lista per Biassono 



L'ULTIMA FERMATA


Avvertii subito la sensazione di essere tornato a casa. Chissà perché. Alla fine il treno mi aveva condotto nella stazione periferica di un paesino sperduto, immerso in un sonno profondo quanto i misteri della culla. L'ora tarda, però, aveva contribuito a creare un’insolita intimità all'interno della sala d'aspetto, dove bizzarre figure si erano raccolte per trascorrere la notte, più che per attendere le corse successive.

Un ubriacone, il cui pesante russare copriva persino il ticchettio dell'orologio a muro, era disteso lungo una fila di sedili traforati che disegnavano il perimetro della stazione; poco più in là, rannicchiata vicino a una colonna dall'intonaco scrostato, una vecchietta era intenta a mettere ordine in alcuni sacchetti di plastica. Lungi dall'invadere i loro spazi, decisi di assestarmi su un trenino in legno che durante il giorno doveva essere preso d'assalto dai bambini più irrequieti: le prime tre carrozze erano ampie a sufficienza per imbastire un letto di fortuna, mentre il vagone ristorante avrebbe ospitato senza problemi l'enorme zaino che mi trascinavo ovunque.

Scrupolo del tutto inutile. Preannunciati da risa sguaiate, due monelli balzarono fuori dalla scalinata che conduceva ai binari e, scartandosi reciprocamente, conclusero una fulminea azione di calcio tirando con violenza al centro della sala. La pallina di carta, ormai logora, sfiorò la paccottiglia della donna e andò a conficcarsi nell'intercapedine della macchinetta per il rilascio dei biglietti. In un battito di ciglia si adombrarono: "tanta bravura per nulla!”, commentò con stizza il più grande. A testa china raggiunse l'ubriacone sulle seggioline, si prese la testa fra le mani, simile a un pensatore della Grecia antica, e fissò i gomiti sulle ginocchia con fermezza granitica. Dal lato opposto, il suo amico lo fissava assorto. Per un attimo ebbi l’impressione che il tempo si fosse fermato, fotografando la trascurata armonia di un'improbabile famigliola notturna. La vecchietta aveva infatti rivolto uno sguardo accondiscendente ai due giocatori, accarezzandoli con la pacata saggezza dell'età, quasi volesse prevenire una reazione un po’ sgarbata da parte dell'uomo macilento. L’orologio ticchettava impietoso, ma di tanto in tanto la porta scorrevole si spalancava, introducendo sulla scena nuovi personaggi per apparizioni fugaci. Sembrava di sedere a teatro, a una di quelle commedie dell'assurdo in cui erano gli emarginati e i freak ad accattivarsi la simpatia della platea, ironizzando sulle loro piccole tragedie quotidiane.

"Come mai non dormi?" - domandò il più grande dei due monelli. "Hai riordinato le tue cianfrusaglie per ore, come se dovessi accamparti qui per sempre, e poi te ne stai lì ritto a fissare il vuoto”.

Era sbucato alle spalle senza fare rumore. Il suo compagno gli stava accanto divertito, giochicchiando con un accendino raccattato in qualche cestino dei rifiuti. "Non so. Sono contento di trovarmi qui, in vostra compagnia. E' da settimane che viaggio ininterrottamente, vagando di stazione in stazione alla ricerca di qualcosa che non sono riuscito a trovare. E ora, quasi per caso, sento che trascorrerei volentieri il mio tempo qui”. “Ma dai! Allora ti siamo simpatici? Ehi Billy, abbiamo un nuovo amico!". Il bimbo con l'accendino s’illuminò: tenne la fiamma accesa per qualche secondo e rise di gusto. Anche la vecchietta ci fissò soddisfatta.

"Cosa intendevi dire, prima, quando hai gridato "tanta bravura per nulla"? - chiesi. “Ti piacerebbe forse diventare un giocatore professionista?"
"E' giusto un mio sogno. Non ho mezzi, né istruzione. Mi hanno abbandonato quando avevo la sua età!” - e indicò offeso Billy, i cui grandi occhi azzurri pendevano sempre dalle sue labbra. “Benché fossi stato affidato in custodia a un signore con una pancia smisurata, me la sono data a gambe: meglio vivere per conto proprio, che accanto a una persona insulsa". Sbuffò. Non andava fiero del suo passato. L'unica vera consolazione, per quanto non volesse darlo a intendere, era stato l'incontro con Billy, certo più sfortunato di lui perché molto più fragile. Lo trattava come fosse un compagno di sventura, ma non era che un bimbo. Lo sapeva bene: inconsciamente si sentiva in dovere di proteggerlo e, se talvolta rimediava qualche barretta al muesli o di cioccolato, il pezzo più grosso spettava sempre a lui. "Abbiamo girato un sacco di stazioni” - riprese con spavalderia - “finché il caso ha voluto che proprio questa divenisse la nostra casa. Non chiudono mai, neppure di notte. Inoltre conosciamo tutti i tiratardi del posto: quell’ubriacone che vedi steso là, ad esempio! Ci racconta un sacco di storie spassose, mentre Babuccia, una volta, ha messo in fuga dei brutti ceffi: volevano rubarci il coltellino, ma lei si è messa a gridare e li ha spaventati. E' in gamba, la nostra Babuccia!”. “Già! E’in gamba la nostra Babuccia” - ripetè Billy, annuendo orgoglioso con le braccia incrociate.

La stanchezza iniziava a pesarmi sulle palpebre, ma era impossibile accomiatarsi dai due. Volevano sapere dei miei viaggi, delle località più strane che avessi mai visitato, della mia vita. La curiosità li divorava. Ogni aneddoto pareva lasciarli a bocca aperta, benché riguardassero per lo più episodi di vita quotidiana. Alla fine ritenni più saggio girar loro le domande rivoltemi senza interruzione, in modo tale che potessi sonnecchiare a occhi aperti, mentre si sforzavano di ricordare le avventure vissute insieme. Billy insisteva nel dire che il suo compagno era ancora più bravo dell'ubriacone nel raccontare certe storie. Lui si schermiva, ma dentro di sé gongolava per quei piccoli riconoscimenti. "Dai, dai! Raccontagli di quella signora! Sei poetico quando parli di lei. Le parole ti escono diverse…non sembri neppure tu! Sì, sei strano quando parli di lei”. Il ragazzo arrossì, ma trovò infine il coraggio di aprirsi. “Beh, ho immagini confuse e poi lo sai che mi bruciano gli occhi quando racconto. Ricordo…ricordo il suo volto, il suo profilo inondato dalla luce di un tramonto come tanti altri. Ricordo il suo sguardo, che un tempo aveva scintillato in occhi d'ambra, sino al giorno in cui si smarrì nell'ultimo volo delle rondini estive, senza fare più ritorno. Di fronte alla tavola sfatta, su cui non erano rimasti che brandelli di una grigliata insipida, la sua figura stava accasciata sulla vecchia sedia di paglia. Immobile, quasi presentisse l'avvicinarsi di un istante fatidico, lasciando che solo i suoi capelli fini e diradati assecondassero la danza della brezza serale”.

“Lo senti? Lo senti??” - si agitò Billy. “Non è bravissimo, il mio fratellone Hansi? E’ un poeta! Oh sì, se lo è! Quante volte ho voluto ascoltare questo racconto! Vedo tutto, quando lui parla così…”.

Era davvero inspiegabile. Riuscivo a udire persino il sibilo degli steli d'erba, cullandomi sulle note della sua voce così sorprendentemente matura. Anch’io riconoscevo tutto. La brezza di cui raccontava, ad esempio, era stata una vera e propria benedizione, dispensata dopo giorni d'afa insistente che avevano costretto la donna, dapprima, su un divano di raso purpureo, quindi in un letto dalle ruvide lenzuola di cotone; come se la sua pelle ingiallita e grinzosa dovesse abituarsi gradualmente ad asprezze di ben altro genere. "Parlava poco, lei così loquace” - ricordava Hansi. “Sorrideva ancor meno, ma mi dicevano che di nascosto, nell’intimità, aveva iniziato a interrogare i moti degli astri, i cachinni, sì, proprio questa era la parola che usavano, i cachinni delle fronde di quercia, i colori stinti dell'alba di pianura". Billy aveva ragione. Il suo amico era un poeta di strada, forse un pittore mancato. Nonostante l’età, doveva aver vissuto accanto a persone straordinarie per avere una capacità di affabulazione simile. Non sembrava un ragazzo, bensì un uomo maturo, vissuto, vestito però di jeans strappati e una felpa lisa. Nelle sue parole seguivo lo sguardo della donna mentre tornava a posarsi sulle briciole della cena, disseminate sulla tovaglia piena di macchie. Con un’impercettibile contrazione delle labbra, vedevo il suo dispetto per il fatto che in nessun modo, comunque le si osservasse, potessero essere raccolte in alcuna forma geometrica. A dispetto delle allusioni evocate da grappoli di lettere morte, o dalle arcane formule di cifre cieche, quelle briciole manifestavano il tragico destino della casualità. Erano sopravvissute alla vorace ingordigia del tempo e, presto, sarebbero state spazzate via da un lieve colpo di vento, finendo dimenticate per sempre.

Ora che lo scorcio di una vita a fior di pelle iniziava a farsi abbagliante per gli occhi stanchi e velati della donna, erano proprio le piccolezze quotidiane ad alimentare il calore dei suoi ricordi. "La spesa dal vecchio prestinaio - raccontava Hansi - l’odore del té servito immancabilmente con una punta di miele, la trasmissione televisiva condotta dall'impareggiabile re del quiz…”. Frammenti di un’esistenza che stava scomparendo chissà dove, ma pur sempre percepibile nell’impetuoso scorrere del sangue per le vene. “No. Non era sola e non lo era mai stata, benché i suoi cari paressero non badarle, impegnati ai fornelli o al lavabo” - osservò il ragazzo, a cui ora gli occhi bruciavano e scorrevano imbarazzati lungo le rotaie. Quel tramonto rosso e interminabile, steso dalle pennellate impressioniste di Hansi, non poteva che appartenere a lei sola. I richiami della sera, le moine delle betulle, le parole più dolci, ogni dettaglio la sfiorava con la stessa fragile delicatezza dei ciliegi in fiore. L'incanto suscitato dalla bellezza di un fenomeno ciclico aveva infine assunto, ai suoi occhi, la nobile solennità del banale. Non esistevano più confini da oltrepassare, né orizzonti che attendevano nuove scoperte: tutto tornava lentamente all’inizio degli inizi, con la stessa leggerezza che aveva accompagnato i quesiti dei primi anni. Nel tondo della stella più amata, la donna non scorgeva più macchie, né irregolarità. Il suo bagliore non respingeva l'occhio, benché si fosse abituato a subire l'umiliazione del diniego, l’appassire delle speranze, a tollerare il decomporsi nell’ombra di ogni vanità. Invocava accondiscendenza, ora; come se il bagno di luce così a lungo sfuggito dovesse cancellare ogni cicatrice e smussare le spine dei desideri irrealizzati. "Mai più vidi qualcuno accomiatarsi dal mondo con tanta grazia, come quella donna seppe fare”. Lacrime invisibili solcavano le guance del ragazzo. Tutta l’amarezza che, da tempi immemorabili, gli aveva impedito di balzare sul primo vagone di passaggio abbandonandosi ai capricci del destino, era affiorata al di là del suo consenso. 

Finché l'immagine di quella donna avesse conservato il profumo di un sogno svanito troppo in fretta, di una culla anzitempo perduta, Hansi avrebbe continuato a imbattersi solo in squallide stazioni di periferia, lontane anni luce dalla meta che segretamente cercava. Eppure, qualora avesse scorto anche un debole appiglio cui avvinghiarsi, ero certo avrebbe potuto trovare forze sufficienti per riscattare lo sguardo stanco di Babuccia, così come i bonari rimbrotti dell'ubriacone. 

“L'eredità del tempo. L’inesauribile vitalità del legame”. Pronunciai quelle parole quasi senza accorgermene. I due monelli mi guardarono aggrottando le sopracciglia, probabilmente in attesa di una spiegazione al nuovo enigma, dal sentore stranamente allettante.

“Più volte ho considerato queste parole col freddo distacco del filosofo” - spiegai loro - usandole come fossero tasselli per raddrizzare pensieri storti. Quasi godessi del privilegio di scrivere della mia vita, o dell'altrui, potendo attingere semplicemente da sogni iperuranici, senza vivere davvero le loro ferite. Poi, leggendo le note di viaggio di un esploratore dimenticato, fui colpito dall'immediatezza di una frase che si lega benissimo a quanto abbiamo vissuto”. 

I ragazzini si strinsero accanto, sfiorandomi con i capelli spettinati e le loro magliette logore. “E che cosa diceva?” - domandarono impazienti. 
"Parole semplici: proseguo, dunque. Altro non posso fare. Proseguo portandomi nello zaino della vita l’unico tesoro che ho avuto in eredità: l’amore dell'ultima carezza di mia madre”. I ragazzi mi osservavano ammutoliti. 
“Sapete, ancora non mi spiego come un gesto, un solo fugace gesto, possa racchiudere magicamente il senso di un’intera vita. Eppure, grazie a quel gesto, riesco a rileggere il passato avvertendo ogni volta un piacevole tepore spandersi per tutto il mio corpo. E di quel che ancora fatico a raccontare con occhi non arrossati, riesco a scrivere senza alcuna paura”.

“Hai capito, Billy? Abbiamo conosciuto uno scrittore!”. 
I due si sorrisero con complicità.
“Magari lo fossi! - ribattei. “Non sono che un mero biografo!”
“E fa grande differenza?”, mi guardò Billy perplesso. 

Si erano uniti anche Babuccia e l'ubriacone. No. Non era notte per riposare e il sole sembrava non voler proprio sorgere. Al gruppo si era aggiunta addirittura una certa Simone, sensuale cubista di cui Hansi confidò di essersi invaghito. Ogni notte, alle tre meno un quarto, irrompeva nella stazione, godendo nel riconoscere la meraviglia e la venerazione che si dipingevano negli occhi del ragazzo. Quelle stesse virtù che lei, inutilmente, cercava nei volti paonazzi del pubblico sotto il palco, in attesa di un uomo che potesse portarla lontana dal peep show dove lavorava. O di qualsiasi altra occasione da cogliere al volo. Per quanto non mancasse mai di farsi beffe del ragazzo, si era quasi convinta che, un giorno o l'altro, sarebbe fuggita proprio con lui. Un pensiero ridicolo, che scacciava nell’angolino dei suoi desideri ogni volta che incrociava gli occhi adoranti di Hansi. Sorrideva, pensando a come avrebbe reagito stringendolo al seno. Sorrideva e sentiva il bisogno di svaporare quelle fantasie strizzando nervosamente la pompetta di un vecchio diffusore di profumo. 

"Prima di lasciare mia madre” - lessi dalle note di viaggio dell’esploratore - “ho accarezzato il suo viso, come da anni non avevo più osato fare. Nello stesso istante, la sua mano si è distesa sul mio volto, morbida e profumata di buono come il ricordo della mia infanzia. Pochi secondi. Forse un attimo appena. Un gesto riflesso, probabilmente, perché aveva ormai gli occhi chiusi. Eppure in quel momento ho avuto l'impressione di essermi fatto specchio della sua immagine. Un’immagine, buffo a ripensarci, di simmetria imperfetta. Guardavo la mia origine, ma lei non vedeva il suo futuro. Forse non era così importante: ciò che davvero contava stava già tutto in quella carezza”. 

L’esploratore confidava di non aver pianto, perché non avrebbe voluto tradire quel che allora gli era parso solo un presagio. Una paura remota che aveva cercato ingenuamente di scacciare, tentando una nuova fuga lontano da casa: quasi che la sua lontananza potesse esercitare un magico influsso, tenendo vivo il desiderio di una madre che vuole vedere il proprio figlio prima di doverlo abbandonare per sempre. Confidando in quell'assurda speranza, l’esploratore sosteneva di esser stato pronto a prolungare il suo viaggio per l’eternità: più lontano sarebbe andato, più intenso sarebbe stato l'istinto di sopravvivenza di sua madre. Non andò così, in realtà. Quando giunse per riabbracciarla dopo un rientro affannoso, lei aveva accennato appena un sorriso. Sui suoi occhi era calato il buio dell’inconscio. Il vuoto dell’oblio, già soffocata da quel dolore che l’avrebbe infine vinta.

I due monelli furono entrambi scossi da un brivido lungo la schiena e, per la prima volta, andarono a cercare l'abbraccio dei loro vicini. Improvvisamente erano tornati piccoli piccoli. Persino Simone non ebbe il coraggio di scacciare Hansi e lo lasciò avvicinare al suo cuore. L’ubriacone posò invece una mano sulla spalla di Babuccia. Ognuno cercava quella fonte di calore che, in un modo o nell'altro, la vita aveva loro sottratto. Non importava da quali strade fossero giunti. Né se uno di loro sapesse d’alcool o l’altro indossasse vestiti logori. Erano semplicemente legati insieme, sebbene il fischio del treno potesse portarli via da un momento all’altro.

"Si è poi chiesto - aggiunsi - se non avesse sbagliato tutto. Se non si fosse comportato nel modo più stupido e insensato, pur non potendo prevedere un distacco così repentino. E ha pensato a quante parole avrebbe potuto spendere in quegli ultimi giorni persi in viaggio. A quella carezza e a quell’ultimo sorriso. Alla profonda stima e all'orgoglio che riconosceva sempre negli occhi di sua madre, così come in quelli di ogni mamma. Al suo invito a vivere il viaggio con gioia, perché sarebbe stato assai più lungo di quel che lui avesse immaginato all’inizio. D’improvviso, tutto divenne chiaro: non in una preghiera, né in un’invocazione e neppure in un rito scaramantico consiste la benedizione dei viaggiatori. Per chi parte e per chi resta, il saluto augurale è riposto nello scambio di una carezza. Non servono parole nel momento dell’addio. Una madre, un padre o i figli potrebbero sussurrarsi all’orecchio: "ti voglio bene”, "sii forte", “fa' il bravo”, "tagliati i capelli”: tutto superfluo, quando è il mondo a trasformarsi nella nostra casa”. Accarezzai i miei amici uno ad uno, mentre si allontanavano nella direzione dell’alba. Billy stringeva la mano di Hansi. E Hansi quella di Simone. Fu la loro ultima fermata insieme, forse. O la prima, titanica bugia, cui avessero mai prestato fede.  

1 commento:


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